A maggio Franco Branciaroli compirà 60 anni. Ne ha spesi quaranta sulle tavole del palcoscenico, recitando in 150 spettacoli. Davanti a sé, ma così imminente da trovarvisi immerso fino al collo, ha la Vita di Galileo di Bertolt Brecht, che dopo l’anteprima del 16 marzo a Pavia, debutterà ufficialmente il 20 all’Argentina di Roma con la regia di Antonio Calenda. Spettacolo denso di rovelli, il Galileo mostra, per dirla con Brecht, «come la società estorca ai propri individui quanto da essi le serve». Lo scienziato Galileo, l’uomo che ha messo in crisi il sistema tolemaico, è costretto a ripudiare le proprie scoperte perché queste sovvertono la dottrina geocentrica della Chiesa. Personaggio umanissimo nella fragilità spinta fino alla vigliaccheria, Galileo è il simbolo del conflitto tra scienza e religione, tra ragione e dogma. Un personaggio per grande attore. In America lo ha interpretato Charles Laughton, in Germania Ernst Busch, in Italia Tino Buazzelli.
Galileo come punto d’arrivo, Branciaroli?
«Ma no, non credo. Era più difficile interpretare Humbert Humbert in Lolita. Ho l’impressione che Brecht progettasse testi che chiunque potesse rappresentare, che pensasse a un teatro a diffusione capillare capace di reggere qualunque livello interpretativo. Purtroppo, oggi, Galileo ti fa vedere con la propria assenza come il repertorio si sia mangiato il teatro. Abbiamo sette o otto testi che girano da anni sulle nostre scene, sempre quelli, mentre Galileo è stato rappresentato tre o quattro volte, non di più».
Motivo?
«Va’ a sapere. Non puoi neppure dire che sia particolarmente difficile. Brecht lasciava mano libera, ma raccomandava di non presentare una Chiesa oscurantista piena di cardinali imbecilli. E raccomandava di non presentare Galileo come un buon uomo. Il suo nucleo non è la bonarietà, ma il dramma che lui vive».
In che senso?
«Nel senso che ogni cambiamento dell’umanità avviene per tempi lunghi. Qui invece una rivoluzione si compie in un paio d’ore, è provocata dall’intelletto e non dalla storia. Galileo si sveglia e si accorge che “è scomparso il cielo”. E lui, figlio della Chiesa, si accorge di essere precipitato in un dramma dal quale non sa come uscire. Si scopre diverso. La sua diversità è indicata dalla presenza in scena di un bambino, l’unico che lo capisca. Ciò vuol dire che Galileo è un incompreso, è fuori norma. Se lo rendi un simpaticone, ti mangi il personaggio».
Un personaggio solitario come un monumento.
«Lo pensavo anch’io. Poi, quando recitavo in Finale di partita, ho fatto una scoperta: che Beckett è il pendant di Brecht».
Come sarebbe?
«Finale di partita è all’inizio la parafrasi del Galileo. Hamm sta al centro della scena e l’idea di centro nel Galileo è fondamentale. C’è poi il cannocchiale. Galileo nella vecchiaia era cieco. Hamm è cieco. In entrambe le opere il mondo cambia grazie alle lenti».
I suoi 60 anni, Branciaroli. Magari è presto per i bilanci, ma qualche considerazione può farla.
«Sono fortunato perché lavoro. Ho una compagnia mia e non ho l’angoscia di tanti miei coetanei. Che molti attori di 60 anni vivano nell’incertezza è un atto d’accusa verso i teatri pubblici, che non hanno compagnie stabili. Che cos’è un teatro senza attori? E poi, se perdi gli appoggi, non conti più niente».
La colpa di ciò?
«Del ‘68. Oggi puoi dire che Harry Potter è come Antigone. Questa nefasta visione del mondo ha distrutto anche il teatro. Il teatro è un’arte relativa. La mancanza del principio d’autorità, nata col ‘68, ha portato il teatro ad autodistruggersi. Non si sa più che cosa sia un attore, un regista. C’è stato un periodo in cui bastava fumare una sigaretta in scena per credersi attore. Non scherziamo».
Luci di speranza?
«L’unica luce è che vai in scena. Io applico ancora il principio di autorità e spero di essere un punto di riferimento. Ecco perché dirigerei volentieri uno Stabile. Tutto ciò che è struttura portante è urgente che venga diretta da gente che sa il fatto suo, non dai sociologi o dai politici. Ormai la classe dirigente teatrale ha fallito. E nella classe dirigente metto anche gli artisti che hanno il potere».
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